Con la sentenza in esame si tratta il tema dei canoni concessori per le società di telecomunicazioni e quindi dell’art. 93 d.lgs. n. 259/2003.
Il tema di grande attualità ha trovato sponda in alcuni pronunciamenti della Cassazione a partire dal 2014. Tuttavia, la nuova formulazione dell’articolo sopra citato è, a parere dello scrivente, una norma iniqua che presenta forti dubbi di costituzionalità. Essa sostanzialmente statuisce il divieto agli enti e alle pubbliche amministrazioni di imporre canoni per far partecipare le società di telecomunicazioni alle spese per la manutenzione di strutture e terreni su cui sono installati gli impianti stessi. Con questa sentenza viene stabilito che quantomeno per i canoni relativi alle concessioni-contratto anteriori all’ applicazione dell’ultima modifica alla norma questo principio non trova applicazione.
Protagonista della vicenda processuale in esame è una società di telecomunicazioni concessionaria, in forza di concessione-contratto con il comune di Bolzano, del diritto di utilizzare parte del tetto e il garage di un edificio appartenente al patrimonio indisponibile del comune, allo scopo di installarvi un impianto di telefonia mobile a fronte di un canone annuo. La società proponeva ricorso al TRGA contro il Comune e tra le altre motivazioni emerge la richiesta di dichiarare la nullità della clausola relativa al canone che prevedeva oneri maggiori e diversi rispetto da quelli consentiti dall’ art. 93 d.lgs. n. 259/2003. Il TRGA ha dichiarato la nullità della clausola della concessione-contratto ritenendola in contrasto con l’articolo sopra citato in quanto il concessionario esercente i servizi di telecomunicazione non poteva ritenersi assoggettato al pagamento di oneri o canoni diversi da quelli previsti dall’ art. 93 d.lgs. n. 259/2003, anche alla luce dell’interpretazione autentica fornita dall’ art. 12, comma 3, d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 33, e ss. mm..
Avverso tale pronuncia proponeva appello il Comune di Bolzano sostenendo che la previsione dell’art. 93, essendo limitata alla prestazioni patrimoniali imposte in forza di determinazioni unilaterali dell’amministrazione non potrebbe trovare applicazione alle concessioni-contratto e ai corrispettivi con essi stabiliti sulla base di una pattuizione di natura convenzionale accessiva alla concessione.
Il Consiglio di Stato affronta la questione riportando la normativa richiama i principi fondanti la stessa ed in particolare la finalità di garantire a tutti gli operatori del settore delle telecomunicazioni un trattamento uniforme e non discriminatorio attraverso il divieto di porre a loro carico oneri o canoni. Viene richiamatla norma di interpretazione autentica (art. 12 del d.lgs. 33 del 2016) che si dice aver posto un limite al potere impositivo unilaterale degli enti territoriali, ma si dice anche che essa non ha contemplato minimamente eventuali canoni pattuiti convenzionalmente nell’ ambito delle concessioni-contratto aventi ad oggetto beni demaniali o patrimoni indisponibili (come nel caso di specie). Proseguono i giudici dicendo che deve essere valutato anche il “Considerando” 22, seconda parte, della direttiva 2002/21/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002, per cui la disciplina dello statuto della proprietà, sia privata che pubblica, resta, in linea generale, di competenza degli stati membri. A questo punto viene citata l’integrazione apportata alla citata norma di interpretazione autentica dall’ art. 8-bis, comma 1 lettera c), d.-1. N. 135/2018 convertito dalla l. n. 12/2019, n. 12 , il quale ha inserito l’aggiunta: “restando quindi escluso ogni altro tipo di onere finanziario, reale o contributo, comunque denominato, di qualsiasi natura e per qualsivoglia ragione o titolo richiesto”. La norma estenderebbe il contenuto precettivo della limitazione dei poteri impositivi unilaterali degli enti territoriali ad oneri che trovino la loro fonte in “qualsiasi altro titolo” e quindi anche ai canoni riconducibili a titoli convenzionali quali le convenzioni accessive ad atti di concessione in uso di beni pubblici che disciplinano l’assetto patrimoniale del rapporto concessorio. La norma essendo qualificabile alla stregua di un nuovo ed innovativo precetto normativo è applicabile solo alle fattispecie future, da cui esula la fattispecie del caso, pertanto viene accolto l’appello del Comune respingendo il ricorso di primo grado.
In questo caso i Giudici sono riusciti a sfuggire alle maglie dell’art. 93 d.lgs. n. 259/2003 grazie ad una corretta ermeneutica normativa. Viene quindi rispettato in questo modo il canone generale della ragionevolezza delle norme stabilito dall’ art. 3 della Costituzione e dall’ art. 6 della CEDU, rispetto al principio di “affidamento dei consociati nella certezza dell’ordinamento giuridico come specchio della ragionevolezza della legge”. Se si fosse deciso diversamente sarebbe stata minata la certezza del diritto, della coerenza e della certezza dell’ordinamento. Pur gioendo del fatto che sia stata chiarita l’irretroattività della norma sopracitata rimane il rammarico per la posizione ormai consolidata sul tema dei canoni concessori dato che la prima vittima di una disciplina così delineata sono gli Enti pubblici ma, in ultima analisi, i contribuenti.