Il tema della sentenza in oggetto riguarda la rilevanza della buona fede o dell’ignoranza incolpevole sulla configurabilità del reato edilizio.
La sentenza scaturisce in seguito ad una pronuncia della Corte d’Appello confermativa della decisione del Tribunale che aveva condannato l’imputata per il reato ex d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2-bis, perché, in qualità di proprietaria e committente di un immobile in costruzione, realizzava delle opere edili in difformità della S.C.I.A. In particolare, veniva costruito un nuovo corpo di fabbrica addossato all’abitazione, con tubazioni e predisposizioni per l’impianto elettrico, non autorizzate essendo su terreno avente destinazione d’uso agricolo. L’imputata, in seguito alla sentenza di primo grado, aveva proposto appello contro la decisione del Tribunale sostenendo che la Corte non aveva considerato la sua buona fede, in violazione dell’art. 5 c.p.
La Corte di Cassazione ha rilevato come nel caso in esame l’imputata avesse ricevuto dallo Sportello Unico per l’edilizia del Comune la comunicazione della sospensione dell’efficacia del titolo edilizio abilitativo con divieto di prosecuzione dei lavori dato che mancava della documentazione da allegare alla S.C.I.A. Il d.P.R. n. 380 del 2001 all’ art. 23 prevede infatti che la S.C.I.A. debba essere presentata trenta giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori e che, nello stesso termine, il dirigente o il responsabile competente dell’ufficio comunale, in mancanza di una delle condizioni, notifichi l’ordine motivato di non effettuare l’intervento. Secondo costante giurisprudenza (cfr. SS.UU 10 giugno 1994, n. 8154) affinché si possa considerare scusabile l’ignoranza dell’agente è necessario che si verifichi un “fatto positivo dell’autorità amministrativa” che, evidentemente, in questo caso non ‘è stato. Il Comune, infatti, aveva sospeso il titolo abilitativo e imposto il divieto di prosecuzione dei lavori mentre l’imputata, a sua difesa, sosteneva di essersi affidata alle dichiarazioni, mendaci, del proprio tecnico. Secondo la Suprema Corte l’imputata aveva avuto un mero convincimento soggettivo, non confermato da provvedimenti espressi dell’autorità amministrativa. L’imputata aveva inoltre sostenuto, a sua difesa, di non aver saputo della destinazione agricola della particella della proprietà. La Cassazione, bocciando anche questa difesa, ha affermato che il proprietario deve conoscere la destinazione urbanistica delle sue proprietà essendo chiaramente indicata da atti in suo possesso (titolo di proprietà e visure catastali). Ad ulteriore prova della responsabilità dell’imputata rileva l’art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001 che pone una posizione di garanzia in capo al titolare del permesso di costruire e del committente.
Nel caso de quo non è stata quindi riconosciuta la buona fede mancando sostanzialmente un atto dell’amministrazione che potesse far sorgere un legittimo dubbio nel committente, inoltre, la violazione delle norme edilizie era facilmente desumibile dagli atti in possesso dell’imputata.