PREMESSA
La sentenza della Corte meglio precisata in epigrafe costituisce un punto di non ritorno rispetto alla disciplina del piano casa e ai concetti di demolizione e ricostruzione di interi edifici legittimi.
Lo scenario giurisprudenziale è importante anche per comprendere il successivo intervento normativo del decreto semplificazione che ha ben chiara la situazione che si è delineata in materia dopo l’intesa Stato regioni del 2009 che prevedeva la demolizione e ricostruzione con premialità, ma in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi. Per comprenderne la portata occorre fare riferimento all’oggetto degli interventi ovvero alla cosiddetta ristrutturazione edilizia – categoria disciplinata in origine fin dal 1978 [1] quando s’introdusse nell’ordinamento la definizione giuridica anche di altre categorie d’intervento edilizio tese a disciplinare la manutenzione ordinaria, straordinaria, il risanamento conservativo ed il restauro, la ristrutturazione urbanistica e quindi anche la ristrutturazione edilizia.
La categoria della ristrutturazione edilizia prevista dal T.U. n. 380/2001 (art. 3, comma 1, lett. d) ha subito diverse modifiche quanto al contenuto degli interventi comportando una sua diversa configurazione rispetto a quella prevista dall’art. 10 dello stesso T.U.
In estrema sintesi possiamo sostenere che, mentre l’art. 3 citato riguarda la cosiddetta ristrutturazione edilizia “leggera”, l’art. 10 riguarda quella definita “pesante”.
La differenza è sostanziale poiché in rapporto alla tipologia degli interventi ammessi muta il titolo abilitativo specie - per stare alla sentenza in commento – se l’intervento di ristrutturazione (anche con demolizione e ricostruzione) comporta un aumento di volumetria. Si tratta da un lato della SCIA (ex DIA) e dall’altro del permesso di costruire.
E’ notorio come la cosiddetta autodichiarazione (DIA) fu introdotta nel nostro ordinamento anche per le attività edilizie minori - prima richiamate - fin dalla L. n. 493/1993 ma non comprendenti la ristrutturazione edilizia (poi inserita dal T.U. n. 380/2001) come modello di semplificazione ai sensi dell’art. 19 della L. n. 241/1990 finalizzato a rendere più spedite le pratiche edilizie delineandosi così come una vera e propria “fuga” dal provvedimento espresso (la concessione edilizia, poi permesso di costruire).
La definizione normativa di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3, comma 1, lett. d) ha subito modifiche nel tempo cosicché per essere inquadrata come “ricostruzione” e non come nuova “costruzione” l’intervento doveva concludersi con la fedele ricostruzione dell’edificio, con identità di sagoma, volume, area di sedime e caratteristiche materiali. Successivamente, il D.L. n. 301/2002 ha modificato il concetto di ricostruzione eliminando il riferimento all’area di sedime ed alle caratteristiche materiali. Il decreto sviluppo - D.L. n. 70/2001- ha autorizzato la delocalizzazione delle volumetrie. Il cosiddetto “decreto del fare” (D.L. n. 69/2013) ha in seguito eliminato il riferimento alla sagoma stabilendo che dovesse essere rispettata solo quella degli edifici vincolati. Tali interventi di “ristrutturazione ricostruttiva” potevano/possono essere realizzati tramite la DIA poi SCIA.
Diversamente in caso di “modifiche complessive della volumetria degli edifici” o dei prospetti (oltre ai requisiti della ristrutturazione “leggera” dell’art. 3, comma 1, lett. d) si rientra nell’art. 10 “interventi subordinati a permesso di costruire”[2]
La Corte sul concetto di ristrutturazione edilizia “leggera”.
A fronte di tale panorama normativo, che la Corte Costituzionale ricostruisce puntualmente, s’inserisce il comma 1 ter[3] dell’art. 2 bis del T.U. n. 380. Tale disposizione afferma che “In ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo”.
La circostanza importante è che disposizione, secondo la Corte, si collocherebbe tra i principi fondamentali della materia “governo del territorio”[4] aggiungendo, inoltre, che le disposizioni del T.U. dell’edilizia integrano “norme dalla diversa estensione, sorrette da rationes distinte e infungibili ma caratterizzate dalla comune finalità di offrire ai beni non frazionabili una protezione unitaria sull’intero territorio nazionale (sentenza n. 125/2017)”.
Orbene il caso specifico riguardava le modifiche apportate alla legge della regione Puglia sul Piano Casa del 2009 così come modificato, nel 2018 e 2019, con due successive leggi regionali. Quest’ultima modificazione introduce un elemento innovativo poiché prevede la possibilità di ricostruire l’edificio con una diversa sistemazione plano-volumetrica, ovvero con diversa dislocazione del volume massimo consentito all’interno dell’area di pertinenza, senza il rispetto quindi dell’area di sedime. Secondo la Corte, la disposizione della legge regionale non può essere considerata norma semplicemente interpretativa ma innovativa. Infatti, quest’ultima integra una nuova deroga agli strumenti urbanistici rendendo irragionevolmente legittime – in virtù della sua portata retroattiva - condotte non considerate al momento della loro realizzazione, ma tali divengono – proprio per effetto dell’intervento successivo del legislatore – così realizzando una surrettizia opera di sanatoria (con sentenza n. 73/2017).
Ma al di là del caso specifico, il punto decisivo della pronuncia della Corte di concentra sul titolo abilitativo costituito dalla SCIA mediante la quale viene previsto un aumento di volume (la cosiddetta premialità ex lege) ma anche l’abbandono dell’area di sedime.
Tutto ciò in contrasto con le previsioni di norma fondamentale del comma 1 ter dell’art. 2 bis che definisce la “ristrutturazione ricostruttiva” con il limite dello stesso volume, della stessa area di sedime e della stessa altezza dell’edificio. Con “il Piano Casa” “novellato” dalle successive leggi regionali pugliesi - ancorché in deroga agli strumenti urbanistici – si è ammessa una trasfigurazione del contenuto della SCIA ammettendo che con questa si possa demolire e ricostruire anche con aumento di volume e abbandono dell’area di sedime.
Se la disposizione del comma 1 ter dell’art. 2 bis è principio fondamentale questa va applicata su tutto il territorio nazionale con conseguenze sulle diverse leggi regionali di altre Regioni in contrasto con tale principio. Nello stesso tempo va rilevato che il D.Lgs. 25 novembre 2016, n. 222, “Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimento, ai sensi dell’art. 5, L. agosto 2015, n. 124” prevede nell’allegato A del Regolamento Edilizio tipo da recepire da tutte le Regioni una definizione della ristrutturazione edilizia “leggera” che collima esattamente con il principio fondamentale dell’art. 2 bis, comma 1 ter[5]. Va comunque rilevato che l’introduzione del comma 1 ter dell’art. 2 bis origina da un contrasto giurisprudenziale relativo all’obbligo di rispettare la distanza di 10 metri ai sensi dell’art. 9, comma 1, n. 2 del D.M. n. 1444 del 1968 in caso di demolizione e ricostruzione degli edifici, costringendo quindi o a rendere impossibile o altamente problematica la ricostruzione o a creare non pochi problemi di riassetto delle volumetrie esistenti. Il Consiglio di Stato (con sentenze n. 4337 del 14 settembre 2017 e n. 4728 del 12 ottobre 2017) ha posto fine alla discussione mettendo in evidenza – tra l’altro – che la disposizione del D.M. n. 1444 si riferisce ai “nuovi edifici”, di talché in caso di edifici preesistenti da ricostruire la norma non si applica potendosi quindi ricostruire nella stessa area di sedime (ecco un altro punto di contatto con quanto prevede il decreto semplificazione in materia di distanze). Anche se la motivazione della norma del T.U. risiede nella specifica questione in oggetto, considerandola da parte di alcuni commentatori [6], intesa come norma speciale non generale, nulla legittima a non considerare la disposizione del comma 1 ter come principio fondamentale riferito al concetto di ristrutturazione edilizia “leggera” ammissibile tramite SCIA, principio teso a determinare un punto fermo nella disciplina. Ne discende che il legislatore con il comma 1 ter ha inteso reintrodurre nel concetto di ristrutturazione edilizia “ricostruttiva” dell’art. 3, comma 1, lett. d) ciò che era stato eliminato[7] - la coincidenza dell’area di sedime e il limite dell’altezza – riportando all’origine la categoria dell’intervento tramite SCIA. Disposizione che oggi rende incompatibile prevedere tramite SCIA gli interventi ammessi con premio di volumetria e spostamento dell’area di sedime previsti dalla legislazione regionale sul Piano casa[8] (non solo della legge regionale Puglia). Si tratta, in sostanza, di una “regolamentazione dei confini” tra ristrutturazione edilizia “leggera” e quella “pesante” di cui all’art. 10 del T.U. soggetta a permesso di costruire che si proietta – al di là delle deroghe del Piano casa – per trovare organica collocazione nel sistema della pianificazione urbanistica.
Va osservato infine, che a tacer d’altro, è noto che l’utilizzo della SCIA – in luogo del permesso di costruire – riduce drasticamente la tutela degli interessi del terzo operando una “semplificazione sproporzionata” della tipologia degli interventi ammessi sul patrimonio edilizio esistente ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d) del T.U. Proprio con il “Decreto semplificazione” si sono previste, all’art. 10, “misure di semplificazione in materia edilizia per agevolare la rigenerazione urbana” ulteriori modifiche sia del comma 1 ter dell’art. 2 bis, sia della lett. d) del comma 1 dell’art. 3 del T.U.E. n. 380/2001. È questo il filo rosso che collega la sentenza in commento alla nuova normativa sulla semplificazione in materia edilizia.
[1][1] Art. 31, L. n. 457 del 1978
[2] Stesso titolo abilitativo nel caso di immobili ricompresi nelle zone A di cui si chieda mutamento di destinazione d’uso o di immobili vincolati in caso di modifica della sagoma.
[3] Introdotto dalla L. n. 55 del 2019, art. 5, comma 1 (Legge “sblocca cantieri”).
[4] E’ noto che l’introduzione nella Costituzione del 2001 della materia “governo del territorio” in luogo dell’urbanistica di cui al previgente art. 117 Cost. aveva posto interrogativi sulla competenza residuale di quest’ultima, subito fugata dalla sentenza. n. 303/2003 (Mezzanotte) che precisò subito che la nuova definizione ricomprendeva sia l’urbanistica che l’edilizia come materia concorrenti.
[5] Cfr. il comma 2 del D.Lgs. n. 226: “2. Con riferimento alla materia edilizia, al fine di garantire omogeneità di regime giuridico in tutto il territorio nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, è adottato un glossario unico, che contiene l’elenco delle principali opere edilizie, con l’individuazione della categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, ai sensi della tabella A di cui all’art. 2 del presente decreto”.
[6] Corollario di una siffatta ricostruzione esegetica è che il nuovo (e rigorosissimo) vincolo positivo della “coincidenza dell’area di sedime e del volume” – pur costituendo “principio fondamentale della materia” – vale unicamente per la speciale ristrutturazione ricostruttiva ove eseguita in deroga alla disciplina delle distanze, non già e non anche per la categoria generale della ristrutturazione ricostruttiva ex art. 3, comma 1, lett. d), T.U.E. – tuttora astretta soltanto dal limite della volumetria preesistente nonché dal vincolo della sagoma per i soli immobili soggetti a tutela paesaggistica o culturale. In senso conforme anche E. Falcone, Sentenza 70/2020 della Corte Costituzionale: le previsioni di principio della legislazione statale per gli interventi di demolizione e ricostruzione irrompono sul Piano Casa, in www.pausania.it. Vedi anche F. Gualandi, La sentenza n. 70/2020 della Corte Costituzionale, ovvero della “demolizione e ricostruzione” (giudiziale) della categoria d’intervento della “ristrutturazione ricostruttiva”, in lexitalia, 5 maggio 2020.
[7] Vedi D.L. n. 301/2002.
[8] D’altronde, è proprio la Corte a richiamare il comma 1 ter dell’art. 2 bis del T.U. come parametro di legittimità della disposizione regionale pugliese che – oltre all’aumento di volumetria – prevede l’abbandono dell’area di sedime per collocare l’edificio ricostruito nel lotto di pertinenza. E’ appena il caso di rilevare che in tale fattispecie occorrerebbe ricorrere al diverso titolo abilitativo costituito dal permesso di costruire.